A leggere le parole di Roberto Mastrotto in realtà viene in mente una sola parola che riassume il tutto: tenacia.
La tenacia è una fermezza nella volontà, una parola che appunto deriva dal “tenere”, come la colla che non si stacca. Roberto è un atleta tenace, ma non solo perché partecipa e vince gare ultra con dislivelli con mila e mila metri, no tutt’altro; Roberto è tenace per il percorso che lo ha portato ad essere uno degli atleti più forti in Italia su questo tipo di gare.
Scoprire la sua storia ed i suoi pensieri getta finalmente una luce anche su cosa c’è dietro al ritratto di un atleta, perché leggere il nome su di una classifica non è altro che, appunto, una classificazione di una persona in base ad una performance ma spesso, e questo ne è di certo il caso, c’è di più, molto di più. C’è per esempio il come questa performance è stata costruita, un come che per ogni atleta è sempre molto personale e che mai come in questa storia, è fatta di alti e bassi.
C’è stato un momento in cui la corsa poteva non essere più presente nella sua quotidianità, ed è lì che Roberto è stato tenace come la carta del Chupa Chups che non si apre, si è incollato alla corsa invece che scollarsi come in molti gli avevano suggerito, facendo dello sport non un motivo di agonismo, ma bensì un motivo di benessere fisico e psicologico … un motivo di vita.
In realtà le dieci domande a Roberto Mastrotto non arrivano ne all’inizio ne alla fine di questo suo percorso sportivo, arrivano mentre è in viaggio e dalle sue parole emerge chiaramente di come questo viaggio sarà lungo ed affascinante.
Le sue parole vi offrono uno spaccato non comune di un personaggio. Di certo non è l’intervista che vi aspettate e proprio per questo è emerso un lato che forse non vi sareste aspettato, ma è inutile condire oltre questa presentazione, anche perché di parole Roberto ne ha dette molte, e vale la pena leggerle tutte …
Hai iniziato relativamente tardi a correre. Ma prima di approcciarti a questo sport, cosa facevi? E come sei arrivato poi ad iniziare a gareggiare?
Guarda hai assolutamente ragione, la scintilla per la corsa è scattata relativamente tardi. Era metà 2014 circa e fino ad allora non avevo mai una volta corso tanto per correre, fine a se stesso. Fin da piccolo ho sciato, facevo qualche gara di slalom gigante, giocavo a calcio, praticato karate. Nulla di che, o meglio nulla per cui potessi anche lontanamente definirmi un atleta o una persona molto sportiva. Complici gli studi in ingegneria prima, dove l’approccio era molto simile a quello che ho ora alla corsa (tanto e di più), ed il primo lavoro poi, diciamo che mi sono ritrovato in quel periodo, dopo uno stop più o meno completo da ogni tipo di attività fisica a pesare la bellezza di 82 kg (ora ne peso 60). Una stazza certamente più che dignitosa, e che rendeva pure fiera la nonna, ma che mi ha spinto rimettermi in moto per stare meglio con me stesso. Da lì mi sono iscritto in palestra, e quasi casualmente è arrivata la prima corsetta in compagnia, di 5 km. Ecco in quella esatta occasione non so spiegare cosa meglio si sia innescato, ma posso letteralmente dire che da lì non è più passato giorno senza che mi infilassi le scarpette di gomma per uscire a correre. Veramente nel giro di poco mi son ritrovato con diversa zavorra in meno, mangiando pure più di prima, e ad indossare così per scherzo il primo pettorale di una mezza maratona con degli amici. Da lì, sull’onda del correre, senza paura né rispetto di tabella alcuna, si è presentata l’occasione per scoprire che oltre l’asfalto c’era ben di più. Proprio a pochi mesi dai miei primi passi di corsa scopro che proprio a Chiampo, nel mio paese, degli amici organizzavano la prima edizione del Durona Trail, una gara di 60 km con 3200+. Una pazzia al tempo. Ma che poi cosa voleva dire, correvo già sopra bandellette e cose simili, non mi avrebbe certamente fermato qualche km in più e quei 3200+ di cui ignoravo esattamente il concetto. Così avvenne la mia iniziazione al trail, con un’edizione segnata dal diluvio che costrinse l’organizzazione a sospendere la corsa al 50°km, ma che mi preparò psicologicamente al successivo passaggio obbligato per ogni bravo podista, la Trans d’Havet, 80km con 5500+ che sarebbe da lì ad un mese partita ad attraversare in un unico boccone tutte le Piccole Dolomiti. E come non iscriversi ad una cosa del genere, dopo per lo più aver visto il video dell’edizione 2013 con Kilian, Luis Alberto, Emilie e tutti gli altri! Ecco il resto venne poi da se. A fine anno mi buttai a fare la mia prima maratona col cruise control a 4:15 e nel 2016, scoperto dell’esistenza delle ripetute, arrivò così anche la prima bellissima ed inaspettata vittoria proprio nel Durona Trail che l’anno prima mi fece assaggiare i primi metri di sentiero. Ah si, dimenticavo: almeno per qualche anno da questo ritrovato equilibrio fatto di km e salite ricevetti costante ad ogni pranzo della domenica l’incalzare della nonna “Ah, te seri el meio, belo, in forze, sano. Desso te ghe perso tutti i valori!”.
Ma a quella tua famosa prima Durona Trail, come ti sei presentato? Eri stato un po’ “indottrinato” su cibi e indumenti tecnici o proprio con abbigliamento e zainetto a mo’ di primo giorno di scuola?
Ti dirò che nel mio piccolo mi ero procurato un improbabile zaino da trail, con due borracce da bici messe di traverso dietro la schiena, e che mi sarei reso conto poi solo in gara ballare non poco in corsa. Certo allora mi sembrava una soluzione molto tecnica ed efficace. A proposito di zaini e primi giorni di scuola, non posso non citare l’ancor più improbabile zaino utilizzato da un mio amico con il quale abbiamo “preparato” quella prima Durona. Quello sì era lo zaino del catechismo, come l’avremmo poi ribattezzato, rosso della Diadora, di quelli che regalano nei pacchi gara delle mezze. Si in effetti dopo quell’esperienza lui ha appeso definitivamente le scarpe da trail al chiodo in favore del buon bitume, dove non si è costretti a correre con zavorre penzolanti sulla schiena. Anche come maglietta ricordo di aver corso con una maglia tecnica da escursione, che mi fa sudare al solo pensiero ora come ora, però sai com’è vai in montagna, nel dubbio meglio vestirsi. Mi ero procurato anche delle belle calze a compressione ma con la pianta bella soffice e spugnosa, in modo da aggiungere un po ‘di ammortizzazione in vista delle molte ore sulle gambe. Soluzione che, e lo avrei poi capito ancor meglio un mese dopo alla Trans d’Havet, non sarebbe stata la più saggia in particolare in caso di diluvio universale, con il bel risultato di cuocere la pianta dei piedi e finire con delle piaghe lungo tutta la loro lunghezza. Ho fatto fatica a camminare per una settimana poi. Però è questo il bello, si prova, si sbaglia e si trova quel che funziona e quel che è meglio lasciare. Sulla questione nutrizione anche lì ero ancora alle primissime armi. Ricordo di aver fatto incetta al supermercato di fruttini Zuegg e poi per il resto mi sono affidato in toto a quel che si trovava ai ristori. Per la cronaca al 30°km ricordo di aver mangiato un piatto di pasta ed una birra. Oggi fino alle 8-10h di gara vado solo a gel, ah bei tempi dove i ristori erano veri ristori!
Avendo letto già qualcosa su di te, mi aveva molto colpito del tuo malessere di qualche anno fa che hai fortunatamente superato. Cos’hai avuto precisamente ed a cosa è stato dovuto? Com’è stato riprendersi?
Ad inizio 2019 sono stato colpito da una pesante infezione batterica da Stafilococco Aureo che mi ha colpito a livello di sinfisi pubica, costringendomi a letto in ospedale per un paio di mesi. Il tutto è arrivato un po’ come un fulmine a ciel sereno ed in maniera piuttosto improvvisa. La sera precedente mi sono allenato come sempre ed al mattino mi son svegliato zoppicante, tempo di arrivare a sera e mi son ritrovato in pronto soccorso con 40 di febbre e incapace di camminare. Rimbalzato da un paio di pronto soccorsi, in quanto non capivano bene dove e quanto grave fosse il problema, infezione ha preso forza cominciando a danneggiare un po’ tutto ciò che trovava intorno. Solamente dopo una settimana trovai un medico che, una volta intuita la gravità del problema mi fece ricoverare d’urgenza e da li intrapresi una cura altrettanto aggressiva a base di cinque flebo al giorno di due differenti antibiotici e di oppiacei per il dolore. Per un mese circa rimasi disteso di schiena giorno e notte non potendo mettermi di fianco per il dolore, men che meno scendere dal letto. Poi via via con l’aiuto di qualcuno presi a scendere e con l’aiuto delle stampelle a tornare a vedere il mondo in verticale. Per i medici il responso era abbastanza duro e categorico, difficilmente sarei tornato a correre, men che meno a gareggiare. Li la mia testa dura e la voglia di dimostrare che si sbagliavano sono stati la benzina per intraprendere la strada verso il mio ritorno sui sentieri. Dal primissimo giorno in cui mi hanno dimesso, con gli impalpabili 54kg che mi ritrovavo, mi son subito buttato sui rulli a casa, sarò durato si e no 10′, sudavo di un bianco lattiginoso e mi girava tutto, ma da li ho cominciato a perseguire qualsiasi via che mi permettesse di ritornare. Ho battuto il naso più e più volte, forse anticipato svariatamente diversi passaggi, ma alcune volte ciò che fa bene per la testa e ciò che fa bene per il fisico non collimano, ma tenere buona la testa aiuta molto anche per recuperare tutto il resto. Ho girato in ogni dove alla ricerca di responsi qualificati, spesso finiti in muri fatti di “non devi più correre”, letto e scavato in cerca di metodi e soluzioni più o meno convenzionali. Corso tanti km gestendo dolori più o meno forti, controbilanciati da sorrisi più o meno grandi. Rifarei volentieri tutti i passi falsi che mi hanno accompagnato in quel saliscendi che mi ha portato nuovamente sotto il traguardo dell’Ultabericus Winter a fine 2019 quasi con le lacrime agli occhi, a tutti i successivi inciampi che ne sono seguiti per un fisico che ancora non riusciva a stare al passo con i sogni che mi giravano in testa. Fino al ritorno sorridente e commosso nel 2021 a Cortina prima e ad Adamello poi. Perché non siamo tanto ciò che ci accade ma ciò che facciamo in risposta ad ogni ostacolo che ci viene posto di fronte.

Quanto la corsa ha cambiato il tuo modo di essere nella vita di tutti i giorni?
Non saprei dirti con esattezza, sicuramente è divenuta parte integrante della mia quotidianità, una sorta di valvola di sfogo che a fine giornata mi aiuta a resettare e a riporre le cose al proprio posto. E’ un modo per ricongiungermi con la naturalità delle cose, semplici e senza costruzioni. La corsa, soprattutto in natura, mi da modo di esprimermi e di realizzare pure qualche piccolo sogno. Mi ha permesso di vedere posti fantastici, arrivandoci con le mie gambe, di conoscere persone stupende, alcune delle quali sono oggi tra le più importanti di sempre. Mi ha aiutato non solo a sentirmi fisicamente più in equilibrio ma anche mentalmente più libero. Soprattutto nelle corse lunghe tutto diviene via via più chiaro, più definito. Le crisi arrivano, ma così come poi accade nella vita di tutti i giorni, se si trova di volta in volta la chiave giusta per superarle, se ci si concede il giusto tempo, ne segue sempre poi un momento di estrema gioia. Sorriso, con questo termine definirei come la corsa ha cambiato il mio modo di essere nella vita di tutti i giorni, perché quando si fanno cose belle in posti belli, che siano pur anche più o meno senza senso, non si può che affrontarle con il sorriso.
Perché gare lunghe? Perché non ti sei approcciato ad altri tipi di corse ma fin da subito distanze di un certo tipo?
In realtà non vi è stata una motivazione precisa, la corsa è capitata così quasi per caso nella mia vita ed ha seguito un decorso più dettato dal susseguirsi degli eventi che da una vera e propria pianificazione, almeno per quanto riguarda tutta la prima fase. Di per certo la sfida in sé nel dimostrare di poter coprire certe distanze ed in un certo senso di riuscire a progredire, alzando di volta in volta di un po’ l’asticella, di correre ancora più a lungo, ancora più in alto, ha sicuramente spinto verso tale direzione. Probabilmente di primo acchito la sfida è stata nell’aumentare la distanza e solo poi di cominciare a misurare il tempo. Tant’è che mi sono cimentato nella distanza regina, nella maratona, solamente dopo aver rotto ampiamente il tabù della distanza in sé con gare ampiamente più lunghe in montagna. Oggi, pur rimanendo l’amore per le lunghe, lunghissime distanze, non disdegno nel mettermi in gioco ogni tanto anche su distanze e terreni molto diversi. Da una campestre alla canna del gas, ad una 100 miglia molto tecnica, ad una maratona su strada, penso che ogni distanza abbia il proprio fascino e a suo modo contribuisca a renderci nel complesso dei corridori migliori e più completi, il giusto mix di stimoli e di esperienze, che poi vanno finalizzati e ottimizzati verso il format di gara nel quale ciascuno di noi si specializza. Nel mio caso lunghe distanze. Perché si, oltre una certa distanza, oltre un certo numero di ore, non è più solo questione di motore. In una 100 miglia cominciano a mescolarsi tutta una serie di variabili e di condizioni che rendono molto più intrigante anche la gestione degli imprevisti e della strategia stessa da impostare gara per gara. Ad ogni ostacolo, ad ogni crisi, trovare la via migliore per uscirne e per continuare come prima o meglio di prima. Entrano in gioco in maniera preponderante anche la testa sicuramente, ma anche la pancia, che se decide di mettersi di traverso puoi avere le gambe più allenate di tutti ma non ne spremi nulla. Insomma se me lo chiedi oggi perché gare lunghe, appunto per questo, perché penso ci sia ancora molto da provare e sperimentare, e perché di per sé ogni gara lunga è un’esperienza a sé che ci mette a nudo, togliendo il superfluo di tanti costrutti che ci accompagnano nella quotidianità, rivelando ogni volta aspetti nuovi e vividi di noi stessi.

Il mondo del Trail è in netta crescita, sia per numero di gare che per numero di partecipanti, ma nonostante questo la stragrande maggioranza degli atleti élite di questa categoria sono dei “dopolavoristi”. Tu, da atleta élite che si allena dopo il lavoro, come vedi il movimento? Perché manca il professionismo nonostante ci sia sempre più appeal per gli sponsor?
Penso che il movimento sia ancora relativamente giovane ed in forte crescita. Stanno cominciando a crescere non tanto solo il numero di partecipanti e di gare quanto anche la preparazione specifica media, ed i risultati nelle gare più importanti ne sono testimone, con record che continuano ad essere limati anche di parecchio anno dopo anno. Basti pensare, senza andare troppo distante a scomodare Zegama ed UTMB varie, alla classifica di Porte di Pietra 2021, per l’occasione campionato italiano, dove si è visto crollare pesantemente ogni record precedente, con mi pare almeno i primi 9 al di sotto del precedente tempo. E stiamo parlando di una delle gare storiche nel panorama nazionale, dove mica vinceva l’ultimo arrivato. Ciò nonostante anche tra gli atleti élite ad oggi almeno in Italia questo bellissimo sport rimane cosa da “dopolavoro”, complice forse anche l’eccessiva strumentalizzazione dello “spirito trail”. Cosa peraltro bellissima e che contraddistingue buona parte dell’essenza della corsa in natura, con la condivisione e la convivialità di molte uscite. Ma quando si parla di pettorale, quando c’è di mezzo una classifica, tempi, e sempre più sponsor e media che circondano e danno valore alle gare più importanti non si può ostentare lo spirito trail quale pretesto per ripudiare il vile denaro per premiare le prestazioni degli atleti. I circuiti in tal senso stanno crescendo ed evolvendo a dismisura, si pensi ad UTMB World Series, movimentando importanti investimenti e divenendo sempre più business oriented, con la pecca per il momento di scordare completamente l’inclusione dal punto di vista reward proprio di chi tiene in piedi lo show, ossia degli atleti. Chiaramente non potrà mai esserci professionismo finché il palco vien tenuto su da chi incastra letteralmente gli allenamenti, le sedute dal fisioterapista, da chi scende a compromessi tra lavoro, allenamento e recupero. I principali brand di scarpe e materiali outdoor, giustamente spinti anch’essi dalla continua crescita e popolarità di questi sport, parzialmente investono e sostengono in parte gli atleti, benedetti se non ci fossero, ma siamo lontani anni luce dal poter valutare di dedicarsi quanto meno come part-time al Trail running come attività, soprattutto in Italia. Ed è un peccato, perché poi il tutto è un loop che frena nella crescita qualitativa del movimento, trovandosi poi a “scontrarsi” con atleti professionisti Francesi, Spagnoli, Americani nelle gare che contano in maniera impari. Quindi sì sono il primo a sostenere lo “spirito trail” e le uscite “ravanage” in piena libertà in compagnia, ma piacerebbe al tempo stesso vedere riconosciute e sostenute in maniera concreta le eccellenze di questo sport. Non si vive solo di calcio, siamo bravi anche a menare forte le gare in montagna se ce ne viene dato modo!
Nello sport che fai, cos’è la cosa più bella per te? (hai carta bianca, … qualsiasi cosa)
Se anche smettessi con le gare, per quanto non nascondo l’aspetto agonistico costituisca ad oggi una leva molto importante che mi motiva costantemente a ricercare margini e punti di miglioramento, non mi verrebbe a mancare la motivazione principale che mi spinge di giorno in giorno ad uscire a correre. Perché sostanzialmente finché corro sono libero, in particolare quando corro in natura, sto bene con me stesso e lascio la mente fluttuare come un tutt’uno con quanto mi scorre a fianco. E’ un po’ come tornare a ricongiungermi con la nostra vera natura, un passo dopo l’altro, un respiro dopo l’altro. Continuerei a correre perché questo sport mi permette di vedere posti belli che non avrei modo di raggiungere se non con le mie gambe per l’appunto. La cosa più bella per me di questo sport è il fatto che mi permetta di fare “cose”. Adoro fare uscite in solitaria, a dire la verità buona parte della mia settimana di allenamenti sono io ed io, solo con il mio respiro e con i miei pensieri. Ma adoro allo stesso modo il poter condividere molti di questi km. Abbiamo un gruppo io, Francesco Rigodanza ed Alessio Zambon, battezzato “Cose belle e senza senso”, perché forse la vera essenza di questo sport sta nel muoversi in posti belli, in montagna, facendo cose a volte anche apparentemente senza senso, percorsi illogici, in modalità casuali, dalle uscite con pettorali di gare fantasiose, alle ravanate su giri incorribili, alla “segmento terapia sui sotto l’ora delle Piccole”. Insomma non necessariamente tutti gli allenamenti devono essere noiosi ed imposti, e questa penso anche sia la chiave per avere la giusta longevità dal punto di vista agonistico in questo sport.

Hai degli obiettivi (o dei sogni) sportivi per i tuoi prossimi anni di competizioni?
Ho in mente fin dal giorno successivo alla mia UTMB 2018, la mia prima 100 miglia, che chiusi 19° in 24h:28′, di tornare a cimentarmi attorno al Bianco rischiando quel tanto che basta in più per chiudere il giro nel tempo che ho in mente e che so essere a portata, quindi se mi chiedi un piccolo sogno sicuramente questo. Tornare a correre a Chamonix mi è stato anche di forte stimolo, anche nei momenti bui mentre ero bloccato a letto in ospedale, di appiglio a non mollare e a non dare troppo peso alle previsioni grigie che mi venivan prospettate. Mi piacerebbe poi molto cimentarmi anche in una 100 miglia americana, mi frulla da un po’ per la testa la Leadville 100, cosciente che non sia una gara semplicissima da preparare al meglio, viste le quote a cui si corre, difficilmente replicabili qui da noi. Mi piacerebbe infine riuscire a meritare un giorno la maglia azzurra per il mondiale trail lunghe distanze, ma ho smesso di intestardirmi alla strenua rincorsa di questo obiettivo come feci peraltro sempre nel 2018, voglio che sia una naturale tappa del mio percorso, che se vorrà arrivare accoglierò con il più grande dei sorrisi.
Be, parlando di maglia azzurra, in realtà non credi che sia un peccato che non esista un Mondiale o un Europeo su distanza Ultra? Non credi manchi un titolo assoluto per esempio della 100 miglia che è una distanza ormai classica del Trail? Per come sono le cose, tu ora devi “scendere” di distanza per fare i campionati di Trail Lungo, e quindi competere non nel tuo terreno ideale.
Si dici bene, è un vero peccato che manchi ancora un mondiale federale su distanze ultra sopra gli 80km, quando per l’appunto una 100km o una 100miglia sono entrambe distanze ormai classiche per il nostro sport. Direi che il circuito che più ad oggi vada a ricoprire il ruolo di vero e proprio mondiale indiscusso di trail per le distanze ultra sia UTMB, parliamo comunque di un circuito privato con regole e dinamiche a sé. Chiaramente per un atleta che incentra la propria stagione su gare nel range 100-170km andare a cercare un piazzamento di prestigio in un campionato FIDAL Trail Lungo o comunque in gare di selezione disputate nel range 60-80km, significa certamente “scalare” di distanza e scendere talvolta a compromessi che, per l’iper specializzazione che sta avendo questo sport, non permettono magari di esprimersi appieno su quella distanza in quel momento della stagione. Poi ripeto, sono il primo a non tirarsi indietro quando c’è da mettersi in gioco anche fuori zona comfort, che se c’è da far bagarre per il sogno maglia azzurra ben venga menar le gambe su qualunque distanza, però magari un giorno chissà su una distanza veramente ultra!
Chiudiamo in bellezza dai: l’aneddoto (o più d’uno se vuoi) più strano che ti è successo in gara?
Allora vediamo un po’, ti racconto della mia prima CCC, prima esperienza su una distanza a tre cifre, nonché primissima esperienza in una gara internazionale di quel tipo. Era il 2016, correvo da poco più di un anno, mai stato prima a Chamonix e dintorni ed ho avuto la brillante idea di salire quasi una settimana prima per scoprire anche un po’ quei posti. Beh inutile dire che ogni giorno precedente la gara mi son ritrovato a girovagare sui sentieri attorno al Monte Bianco, con il risultato di partire in gara probabilmente già bello cotto e di trovarmi a gestire dei crampi assurdi già dal trentesimo km. Ecco ad un certo punto, sconsolato ed abbattuto mi son fermato sopra un corso d’acqua per provare a riempire le flask, ma le gambe non mi permettevano nemmeno di piegarmi. Quindi sono rimasto lì come un pesce lesso per qualche minuto a guardar l’acqua scorrere in attesa di un anima pia che mi desse una mano. Insomma ho tirato avanti fino a Vallorcine prima di provare il lusso dell’infermeria by UTMB, letto, copertine, borse dell’acqua e una montagna di cibo. Rimpinzato e riposato dopo un paio d’ore, alla ripartenza dall’Aid Station, era come fossi appena partito fresco come una rosa, per arrivare in Place du Triangle de l’Amitié in piena notte nel silenzio più totale, con lo speaker mezzo addormentato seduto su una sedia di plastica, mai più miglior arrivo. E io un sorriso grande come una casa per aver riportato le chiappe a casa alla mia prima 100km attorno il Mont Blanc.
Te ne racconto un altro, sempre Monte Bianco, UTMB 2018, prima 100 miglia. Stavo risalendo da Courmayer verso il Bertone, momento di crisi nera. Una volta in cima ingurgito del parmigiano con la coca cola e miracolosamente scende tutto e lentamente pare anche riaccendere la fiammella che si era spenta durante la risalita. Nel traverso mangia e bevi che porta al Bonatti pian piano riacquisto un passo più degno di essere chiamato corsa e a mio modo rifiato. Proprio in tale istante in lontananza vedo un altro concorrente, alto quasi il doppio di me, completamente ricoperto in Gore pantaloni e maniche lunghe, cappuccio in testa e barcollante non poco. Lo raggiungo e lo affianco. Gli chiedo se tutto ok, qualche minuto prima ero più o meno nella stessa condizione. Neanche il tempo di ricevere un “I’m done, totally done. Good job, keep going man” che butto l’occhio sul pettorale giusto per scorgere il numero 1, Jim Walmsley. Lascio solo immaginare quel che è passato nella mia mente in quel preciso istante, certo è che in un nanosecondo ho acquisito qualche istante di superpoteri e al ristori di Arnuva volevo anche chiudere lì la mia UTMB ed appendere con gloria le scarpe al chiodo! In realtà la strada verso Chamonix era ancora lunga, ma un alba così l’ha certamente resa più leggera. Quest’anno Jim sono certo sarà ben più distante quando mi ritroverò in Val Ferret.
Ah per la cronaca, lo scorso anno ci siamo ritrovati nuovamente ad Arnouva, io e Jim, nell’angolino raccolto, caldo e confortevole dell’infermeria, ognuno alle prese con i propri pensieri e le proprie cotte da UTMB. Ah che bello il mondo dell’ultrarunning.
